Per lungo tempo sottovalutati e visti come una scanzonata espressione 2.0 del femminismo mainstream, i femministi di TikTok sono cresciuti sempre di più, fino ad acquisire un peso specifico abbastanza rilevante almeno sui social network. Un’importanza che, con tutta probabilità, li ha portati a perdere il contatto con quello che e’ il mondo reale. Questo anche grazie a un algoritmo che fa credere alle persone di essere diventate figure centrali del dibattito pubblico. O almeno così sembrano dire i numeri. E a furia di vedere i propri video raggiungere milioni di visualizzazioni, se ne convincono.
Così troviamo ragazzi di appena vent’anni, con poca o nessuna esperienza di vita reale, pontificare sul ruolo della donna, su come dovrebbe essere strutturata la famiglia, sui ruoli genitoriali, sul matrimonio e via dicendo (in base al trend del momento ovvio). Discorsi complessi, sparati nella rete per generare views un tanto al chilo, spesso se non sempre copiando a pappagallo le parole di altri colleghi TikToker. Si genera così una vera e propria bolla di persone, spesso minorenni, che si fanno spiegare la vita da chi, di vita vera, ne ha vissuta ben poca, anche solo per ovvi motivi anagrafici.
Nulla di nuovo, dunque? I femministi di TikTok sembrano, almeno nei contenuti, quei ragazzi un po’ più grandi che, nell’epoca pre-social, si ritagliavano un po’ di popolarità raccontando esperienze (spesso inventate) ai più giovani pronti a penzolare dalle loro labbra. Ma c’è un’evoluzione più oscura, una deriva cominciata già da alcuni mesi, che è sfociata negli ultimi giorni in veri e propri regolamenti di conti all’interno di una delle “bande” di femministi più famose. Provo a ricostruire la vicenda, volutamente non faro’ i nomi delle persone coinvolte perche’ non mi interessa la querelle sterile col personaggio di turno.
Negli ultimi tempi, all’interno del movimento neofemminista, è salita alla ribalta una ragazza attiva da molto tempo sui social, che da anni denuncia di aver subito molestie da un membro dei Måneskin. Ora, lungi da me voler stabilire se la sua storia sia vera o meno, quel che è certo è che la ragazza sembra non stare bene a livello psicologico. Per anni ha pubblicato contenuti in cui incita alla violenza contro gli uomini, all’uso delle armi, con toni talmente estremi da costarle spesso il ban su Instagram.
Poi è sbarcata su TikTok. Da lì, il successo. Un suo video ironico sulla sigla del succo di frutta ACE raggiunge milioni di visualizzazioni e la consacra come opinion leader su temi come femminismo, disparità di genere e tutto il pacchetto da social influencer che ormai conosciamo a menadito.

Ovviamente i critici non mancano. Alcuni TikToker, associati (a torto o a ragione) all’alt-right, anche loro con milioni di follower, iniziano a bersagliarla. E questo la fa crescere ancora di più, dandole ancora piu’ importanza. Scendono in campo altri “influattivisti” a difenderla: “una sorella va sempre sostenuta”, anche se usa toni violenti. La giustificano, la incitano ad andare avanti, insomma l’attivismo online non e’ un pranzo di gala. Solite lotte tra commenti e ricondivisioni: nulla di eclatante, almeno per chi non vive su TikTok.
Ma un giorno le cose si complicano. A Roma, due ragazze trans vengono picchiate fuori da un locale. Una delle due mi contatta pochi minuti dopo e io, tramite Welcome to Favelas, do la notizia in anteprima. Notizia che viene poi ripresa da tutti i giornali. (La cosa paradossale? Sono stato persino accusato io di omofobia, nonostante sia stato il primo a denunciare l’accaduto e ad aver messo le ragazze in contatto con Arcigay per offrire loro supporto — ma questa è un’altra storia.
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Dopo la pubblicazione del video dell’aggressione, parte una caccia all’uomo sui social per identificare gli aggressori. Qualcuno fa il nome di un ragazzo di 18 anni, un barbiere della periferia estrema di Roma. E qui scoppia il putiferio.
La TikToker del succo di frutta ripubblica nome, cognome e luogo di lavoro del ragazzo. Ne consegue un’ondata di minacce di morte. In molti si organizzano su TikTok per “fargliela pagare” e non in senso figurato: volevano davvero fargli del male. Intanto, l’algoritmo di TikTok premia i contenuti più estremi. Nessuno, ancora oggi, dalla piattaforma ha chiesto scusa o dato spiegazioni.
Alla fine si scopre che il ragazzo non c’entrava nulla con l’aggressione: era solo una leggera somiglianza, ironia della sorte per un giovane barbiere, e’ stato il taglio di capelli simile a quello dell’aggressore a metterlo nei guai. quel punto la TikToker sparisce dai social, travolta dalle critiche (giustamente) per aver generato un’ondata di odio contro un innocente. Ma qui entrano in scena i femministi di TikTok molti dei quali, tra l’altro, sono maschi.
Incredibilmente, invece di riflettere su quanto un comportamento simile possa essere pericoloso e trarne una giusta lezione, la banda la difende: “Una sorella che sbaglia è sempre una sorella, e va difesa”. Questo è il mantra. Intanto, la responsabile sparisce dai social, senza neanche scusarsi col ragazzo.
Insomma, “la gang non si infama”, come diceva la DPG qualche anno fa. Ma poi succede di peggio.
Una ragazza della banda dei femministi ricondivide il video di una TikToker che denuncia l’irresponsabilità dell’accusatrice del giovane barbiere. E da lì iniziano le prime crepe interne. Poche ore dopo, la stessa ragazza denuncia di aver subito una molestia proprio da uno della banda senza farne il nome. Sui social parte la caccia al molestatore. Due o tre i principali sospettati, personaggi già noti per la loro violenza verbale e totale chiusura al dialogo che hanno per anni accusato chiunque agitando il manganello delle shitstorm e dei callout.
Insomma: c’è un molestatore tra i femministi piu’ famosi, e questo scuote TikTok Italia. Dopo qualche giorno e parecchi video, i contorni della vicenda si fanno più chiari. Durante un Pride, uno dei femministi avrebbe molestato una ragazza. Lei si sarebbe confidata con il resto della banda, ma non sarebbe stata creduta. Dopo anni passati a ripetere lo slogan “sorella, io ti credo” ogni volta che un caso di cronaca coinvolgeva una donna, ora, a non essere creduta, è proprio una sorella che accusa uno di loro.
Anche qui, l’area si spacca: c’è chi accusa la ragazza e chi la supporta. Molti di questi ultimi, va detto, la sostengono più per attaccare i femministi (che in effetti si erano fatti molti nemici) che per reale convinzione o sincero dispiacere per l’accaduto.
Poi arriva la toppa come sempre peggiore del buco. Uno dei capibanda prende la parola e definisce “scopamici” la vittima e il presunto molestatore, criticando più o meno apertamente il comportamento della ragazza chiamandola ‘‘Token’’ ovvero un gettone da usare per critica i femministi sui social. Insomma: i panni sporchi, anche se arcobaleno, vanno lavati in famiglia. Un atteggiamento omertoso, completamente opposto a quello che predicavano da anni che lascia trasparire, ancora una volta l’inconsistenza e l’incoerenza di queste figure che farebbero meglio a viverla la vita invece che tentare di insegnarla agli altri
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